Uniti si vince. Ma un attimo dopo si ricomincia a litigare. Il giorno dopo la vittoria delle amministrative 2017 («il centrodestra è la prima area politica del paese, da nord a sud, avendo conquistato 79 comuni di cui 16 capoluoghi, quasi tutti strappati al centrosinistra» è l'analisi di Gregorio Fontana, responsabile organizzazione di Forza Italia), i leader del centrodestra fanno conferenze stampa e comunicati e tornano subito a galla le differenze. Matteo Salvini parla con i giornalisti in via Bellerio, sede della Lega, per comunicare, «oltre l'emozione e la soddisfazione», che «ora basta strizzare l'occhio a Renzi», che serve una legge elettorale di tipo «maggioritario» e che lui comunque, vero mattatore della campagna elettorale «con ben 200 comizi in giro per l'Italia», se servirà farà «un passo indietro per la leadership» e non sarà certoquello che «s'incaponisce con le primarie visto che le ha chieste 18 volte e per 18 volte Berlusconi gli ha detto di no». Tre su tre chiare punzecchiature al Cavaliere.
Appena spenge i microfoni Salvini, li accende a Roma Giorgia Meloni che nella sede di Fratelli d'Italia a Roma, nell'euforia per il primo sindaco eletto (nella ex rossa Pistoia), chiarisce un punto: «La moderazione in politica non esiste più». Così, netta come una lama di coltello.
A questa affermazione risponde Silvio Berlusconi con un comunicato diffuso alle agenzie nel primo pomeriggio. Parla di «trionfo dei moderati», di un centrodestra che è «prima coalizione politica del paese e vince presentando candidati credibili, un programma concreto di cose da fare, la serietà nel linguaggio». E annuncia «la sfida per tornare alla guida del paese sulla base di un programma condiviso e con una coalizione fra forze politiche diverse, caratterizzata da un chiaro profilo liberale, moderato, basato su radici cristiane, secondo il modello di centro-destra vincente in tutt'Europa e oggi anche in Italia». Messaggi che mettono fuori gioco «le ruspe» di Salvini che replica definendosi «moderato e liberale che però nel 2017 sono categorie dello spirito».
Il giorno della vittoria diventa quindi, subito, il giorno dei puntini sulle “i” dove si fa a gara per stabilire chi ha vinto veramente nel centrodestra. Forza Italia mette in tasca 124 consiglieri comunali, la Lega Nord 80, Fratelli d’Italia 50, mentre 337 – la maggioranza, quindi - sono andati a liste civiche dell’area di centrodestra. La Lega fa i conti sui numeri assoluti e rivendica di avere preso più voti.
Neanche il tempo di festeggiare e torna già il grande freddo. Specie tra Berlusconi e Salvini. Con Toti a fare il ponte di collegamento e mai come adesso nel ruolo di federatore e rammendatore. Depositario unico di quel metodo Toti che sembra chissà cosa ma è solo l'antica, vecchia, colladuatissima alleanza.
A trazione leghista o forzista, il centrodestra ha conquistato 76 comuni su 111 in palio. Per capire quale sia veramente la trazione portante, occorre analizzare le tipologie dei nuovi sindaci. Che, da Catanzaro a Padova per finire a Gorizia e Pistoia, hanno avuto tutti la bollinatura del Cavaliere che li avrebbe selezionati in base al principio del “candidato tigre”: l'uomo giusto al posto giusto, che sa capitalizzare il massimo in quel territorio.
Il «candidato tigre» risponde a tre categorie. E tra queste non c'è l'età bensì la capacità di empatia con la popolazione. C'è la società civile: è il caso di Genova dove Marco Bucci è un manager con esperienza all'estero dove è stato presidente di Carestream Health Inc. a Rochester (Usa), vicepresidente di SGS a Ginevra, Ceo in Eastman Kodak Company tra Genova e New York, giusto per citare i più importanti. Nel 2015 Toti lo volle alla guida di Liguria digitale e da lì è iniziato il suo percorso politico. Pierluigi Peracchini, che a La Spezia ha sconfitto il centrosinistra, è un affermato sindacalista della Cisl. A Como ha vinto Mario Landriscina, che nella vita fa il medico del 118.
Un'altra categoria selezionata è quella del Forza Italia purosangue. Qui, magari, i risultati sono andati ben oltre le aspettative. Fatto sta che la fedeltà a Forza Italia ha pagato al momento della candidatura e, poi, per il consenso. È la storia di Sesto San Giovanni dove il 36enne Roberto Di Stefano ha sbancato l'unica vera Stalingrado d'Italia. E dire che quando, negli ultimi anni, Di Stefano è stato corteggiato da altre parti politiche, il giovanotto è rimasto lì, al suo posto, ad aspettare con pazienza il suo turno. Si dice che Berlusconi abbia apprezzato molto. A Como ha stravinto Dario Allevi, un usato sicuro su cui però non troppi avrebbero scommesso. E così a Catanzaro, a Gorizia e a Piacenza dove Patrizia Barbieri ha sconfitto al ballottaggio il candidato del Pd che ha perso cinque comuni su cinque al voto in Emilia Romagna. Mai successo in una una tornata elettorale.
Ci sono poi i candidati sindaci leghisti, anche loro rigorosamente selezionati da Berlusconi. Condividono una caratteristica: non sono urlatori. Una su tutti: Sara Casanova, 40 anni, architetto, il nuovo sindaco di Lodi. Così come, invece, il barricadero Bitonci non è passato a Padova.
Offre un'altra lezione, questo voto: nella coalizione di centrodestra non sembra esserci posto per i cespugli. Gli uomini di Fitto sono stati respinti con perdita in Puglia. Così come risultano “non pervenuti” i candidati di Parisi.
Allora, in questo dopo vittoria pieno di distinguo, al centrodestra non resta che ripartire dalla legge elettorale. Salvini punta ad un sistema maggioritario. Ma, probabilmente dal Senato, Berlusconi terrà il punto sul proporzionale.
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